Un articolo su benedetti

Da L’Espresso del 11-2-2010

L’uomo che inventò L’Espresso


Cent'anni fa nasceva Arrigo Benedetti, fondatore de 'L'Espresso' con Scalfari, e primo direttore. Ricordo e ritratto di un grande giornalista curioso e perfezionista. Che impose uno stile rigoroso e moderno.

Di Nello Ajello

Non so in che modo cominciare questo articolo. Non mi capitava da lungo tempo. È qualcosa di diverso da un disagio occasionale. Somiglia a uno stress ereditario. L'ho ereditato, infatti, da Arrigo Benedetti, il fondatore de 'L'Espresso'. Quest'anno, il 1 giugno, cadrà il centenario della sua nascita. Ma la severa lezione tecnica da lui impartita resiste al tempo: l'apertura di un testo ne era parte integrante. In via Po, sede originaria della redazione, Benedetti imperava con burbera energia. Irascibile, autoritario, instancabile, non concedeva pause alla propria tensione. La comunicava agli altri. Aver lavorato con lui avrebbe creato, tra giornalisti, quella solidarietà che unisce chi ha condiviso il collegio o la trincea. Fra l'ottobre del 1955, quando 'L'Espresso' arrivò in edicola, e i primi anni Sessanta, le fisime benedettiane raggiunsero il diapason. Era allergico a certi retaggi di un giornalismo corrivo.

Detestava ogni cerimoniosità, ogni lungaggine. Guai a scrivere 'il cosiddetto', 'in sede di', 'dal canto suo' ('chi è che canta?', lo si sentiva esclamare). Non potevi usare 'quello' in luogo di 'ciò'. Lo irritavano le virgolette ammiccanti o l'abuso di congiuntivi. Imponeva l'apostrofo appena possibile: 'la firma d'Andreotti', 'i monumenti d'Assisi'. Quando gli portavi l'articolo appena scritto, le alternative erano due. Il direttore poteva leggerlo di persona. La prima parola indebita - specie se usata in cima al testo - veniva cancellata con impeto; la seconda produceva un tremito febbrile, dalla terza in poi c'era il rischio che le pagine finissero appallottolate. Subito dopo andavano raccolte e riscritte. "C'era gente che piangeva", ha testimoniato Manlio Cancogni. Seconda variante: Benedetti si faceva leggere l'articolo, a voce alta, dall'autore. Spesso, per l'orgasmo, la dizione non era delle migliori. Al secondo o terzo intoppo il direttore requisiva i fogli e si poteva ricadere nella devastazione cui accennavo.

Tutti i giornalisti, anche i più ricchi di avvenire, da Cancogni a Gianni Corbi (che nel 1960 sostituì Antonio Gambino come caporedattore), da Livio Zanetti a Marialivia Serini, hanno visto osubìto simili traversie. Un servizio sui palinsesti della Rai, scritto in tandem da Corbi e Fabrizio Dentice, Benedetti lo fece rifare tre volte. Alla terza si udì nei corridoi un gemito - o era un ruggito? - di Dentice, persona solitamente discreta e dal tratto aristocratico. Recuperato un umore decente, in qualche caso Benedetti rivolgeva la parola alla vittima di poco prima, a riprova che ruvidezza era in diretto contatto con la sua onestà. Solo nel caso di contrasti irrimediabili, il redattore colpevole veniva trasferito in tipografia - si stampava allora alla Tumminelli, in via dell'Università - a dare una mano ai correttori di bozze. Una specie di Caienna.

Benedetti intratteneva un legame intensissimo con il coetaneo Mario Pannunzio, come lui nativo di Lucca. Lo consultava, ne accettava le critiche. Fu per amor suo che Arrigo s'iscrisse al Partito radicale, lui che i partiti non li amava. Fra i redattori privilegiava Mino Guerrini, che lo divertiva con quella sua aria da impunito, e Carlo Gregoretti, che lo aiutava a impaginare il giornale. La fantasia grafica del direttore era fervida, quasi gioiosa. Brandiva il righello, misurava gli spazi, tagliava le foto dotandole di un raffinato protagonismo espressivo. Di Scalfari, vicedirettore, era molto amico. Lo sapeva superdotato nel mestiere, gli delegava i rapporti con i politici. Non ne condivideva le abitudini mondane, esagerandone a volte, con aria di scherzo, la portata. Era di un moralismo ferreo. Per lui, legatissimo a sua moglie Rina, le altre donne non esistevano. Una volta Marialivia Serini mi confidò che soltanto da Benedetti le era capitato di vedersi trattare come un uomo. Con gli uomini, si sarà capito, era ancora peggio. Una notte, alle tre, il redattore Cesare Zappulli venne svegliato dal telefono. Era il direttore. "Che cosa fa?", gli chiese. Lui non riusciva a parlare. "Non vede che nevica?". Era il febbraio 1956. A Roma non nevicava da vent'anni: roba da copertina. D'un balzo Zappulli fu in strada, intirizzito, nevrotizzato. E quasi sveglio.

Le sue mattinate erano burrascose ma brevi. All'una raccoglieva i giornali e tornava a casa. Abitava in via Paisiello, vicino al giornale. La sua religione degli orari era legata, nel fondo, a un'avversione da toscano per Roma, i romani, il romanesco. Ai tempi de 'L'Espresso', la personalità di Benedetti era già proverbiale. L'esperienza vissuta in via Po proseguiva una lunga vita professionale. Era stato con Leo Longanesi ad 'Omnibus'. Con Mario Pannunzio aveva diretto 'Oggi', soppresso dal regime fascista nel 1942. Il giorno di Natale del 1943, arrestato per antifascismo, venne rinchiuso nel carcere di Reggio Emilia, dal quale evase durante un bombardamento. Avrebbe poi raccontato questa esperienza in un romanzo, 'Paura all'alba' che resta fra i suoi testi letterari più duraturi. ("Paura all'alba!", noi avremmo ripetuto per tanti anni entrando di mattina, verso le dieci, in redazione. L'alba era passata da un pezzo, ma Benedetti era già ad aspettarci). Nell'immediato dopoguerra, il giornalismo lo aveva riconquistato. Camilla Cederna lo ricordava appena nominato direttore de 'L'Europeo' fondato nel novembre del 1945, a Milano, dall'editore Gianni Mazzocchi. Trentacinquenne, magro, sposato e padre di due figli piccoli, Agata e Alberto, il volto non ancora decorato da quel doppio mento che lo avrebbe fatto soprannominare 'Il tonno', Benedetti le apparve risoluto a imprimere una svolta al mondo delle notizie. Quel settimanale decollò presto. Vi affluirono giornalisti di grande talento, da Manlio Cancogni a Tommaso Besozzi, a Giancarlo Fusco, per fare qualche rapido esempio. Con le colonne sottili, i lunghi articoli di fondo, le ricche fotocronache, 'L'Europeo' rifletteva un'epoca in cui i quotidiani tardavano a sgranchirsi da una storica ufficiosità cui il fascismo aveva cumulato i suoi vizi. Ora la realtà di una democrazia appena rinata diventava un terreno da esplorare a fondo. Gli aspetti umani, personali, aneddotici delle vicende venivano portati in primo piano. L'economia otteneva risalto. Nel marzo del 1950 era arrivato a Milano un giovane ventiseienne, Eugenio Scalfari, capo dell'ufficio stampa della Banca Nazionale del Lavoro. Proveniva dal gruppo del 'Mondo'. Benedetti gli affidò la prima rubrica di economia apparsa su un settimanale. 'L'Europeo' di Benedetti concluse la sua parabola con il numero del 16 maggio 1954. Mazzocchi lo aveva venduto al collega Rizzoli, editore di 'Oggi' e 'Candido', destra benpensante. Dimettendosi, Benedetti evitò di accodarsi alla compagnia.

Padre riconosciuto dell'attualità in rotocalco, Benedetti non aveva mai smesso di dare ascolto al giovanile richiamo della letteratura. Quelle da cui aveva tratto notorietà e prestigio gli parevano avventure a termine. Nove anni a fare 'L'Europeo', otto a regnare su 'L'Espresso'. Già in una pagina di diario del febbraio 1960 egli definisce il giornalismo "la lunga distrazione di cui sono prigioniero". Passa ormai ogni weekend in una sua villa a Saltocchio, un passo da Lucca, a rimeditare sui capitoli di un romanzo che a Roma ha dettato, magari a tarda sera, a una segretaria. "Continuo a correggere", confida al suo diario, "Tornando a Roma detterò di nuovo". Il 10 aprile 1963 lascerà a Scalfari la direzione de 'L'espresso'.

Il romanzo a cui sta lavorando s'intitolerà 'Il passo dei Longobardi'. Tema: la storia di Lucca dal 1921 al 1944. Data d'uscita: 1964, Mondadori. Accoglienza: tiepida. I rapporti di Benedetti con il giornale si diradano, tranne che per la sua rubrica 'Diario italiano'. La tiene fino al giugno 1967, quando, entrato in conflitto con Scalfari per una diversa valutazione della Guerra dei sei giorni, reciderà anche quest'ultimo legame con via Po.

Cosa raccontare, su Benedetti, negli anni che vanno dall'addio definitivo a 'L'Espresso' alla morte, nel 1976? C'è la direzione del 'Mondo', fra il 1969 e il 1972: un omaggio all'amico Pannunzio, da poco scomparso. Escono altri suoi volumi di narrativa, dal 'Ballo angelico' (1968) a 'Rosso al vento' (1974). I più sorprendenti saranno i libri apparsi postumi: 'Cos'è un figlio' - ricordo elegiaco del suo secondogenito, Alberto, vittima di un incidente subacqueo - e il 'Diario di campagna'. Dopo essersi accostato nel 1975 alla sinistra suscitando stupori e rimproveri, dirige per meno d'un anno 'Paese sera'. Un giornale stanco, guidato da un uomo stanco.

Il giornalista chiudeva la sua carriera un po’ in ombra. E il letterato? Forse fece in tempo a registrare il giudizio di Gianfranco Contini, che include un vecchio racconto di Benedetti, “Il prato” (1945) <>. Il giudizio, assai lusinghiero, risale a metà degli anni Settanta. Ma chi se ne ricorda, ormai?

 

Da www.europasera.it

 

Arrigo Benedetti: un maestro dimenticato


Di Alberto Marchi 11 Aprile 2007

E' stato uno dei maggiori direttori di giornali del nostro paese, ma in pochi lo sanno. Arrigo Benedetti (1910-1976), ai primi di novembre del 1945, nell'Italia da poco uscita dalle enormi distruzioni della guerra, dava vita a quello che ancor oggi è considerato, se non il migliore, certo come uno dei più convincenti periodici d'attualità che la stampa italiana abbia mai prodotto. Stiamo parlando naturalmente de L'Europeo, che sulla scorta delle esperienze dei giornali illustrati sorti duranti la vigenza del fascismo grazie alle "invenzioni" di Longanesi (segnatamente Omnibus e Oggi), si valeva di una squadra fatta di giornalisti del calibro di Tommaso Besozzi, Raul Radice, Sandro De Feo e di molti altri (successivamente anche di Oriana Fallaci): erano guidati appunto dal "nume collerico" Arrigo Benedetti, implacabile sia nel pretendere il meglio dai suoi peraltro valentissimi collaboratori quanto nel difenderli da pressioni e ingerenze esterne, qualora ce ne fosse stato il bisogno. Sarebbe però riduttivo ricondurre la straodinaria novità portata da questo giornale a vicende famose come la rivelazione della collusione tra la banda di Salvatore Giuliano e lo Stato, che immortalò Besozzi grazie ad una famosissima e irresistibile inchiesta: già il nome del settimanale ne indicava chiaramente la direzione di apertura verso l'esterno e la volontà di rinnovamento del panorama culturale e giornalistico italiano, dopo vent'anni di dittatura e di privazione della libertà. L'avventura di Benedetti alla guida dell'Europeo durò quasi nove anni: nel 1954, a seguito della cessione della testata a Rizzoli da parte dell'editore Mazzocchi, la nuova proprietà chiedeva al direttore un cambiamento di linea editoriale, più commerciale. Il direttore abbandonò così la creatura cui aveva dato vita.

 Fondò allora L'Espresso, che si rivelò anch'esso, anche se con minor impatto rispetto all'Europeo quanto a diffusione, un grande successo editoriale. Vi restò fino al 1963, quando di nuovo, presentendo cambiamenti di linea editoriale, ma dai risvolti questa volta di abbandono delle idee liberali, abbandonò la direzione lasciandola a Scalfari.

Ma Benedetti non fu solo un grande giornalista: fu un prolifico scrittore, autore di romanzi e racconti dalla vena insieme malinconica e cruda, trasognata e realistica. Anzi, la sua prima e forse davvero unica passione fu la letteratura, accompagnata da un interesse politico anche diretto con il Partito Radicale, di cui era stato uno dei fondatori nel 1955. Le sue molte opere di narrativa oggi non vengono più ripubblicate: l'ultima riedizione di un suo libro la si deve ad un piccola casa editrice milanese, La Vita Felice, che ha meritoriamente pubblicato Tempo di guerra nel 1997, la sua opera prima, in cui, appena ventenne, rievocava i giorni della guerra in una Lucca quasi sonnolenta e apparentemente lontana dai fatti tragici e immensi che in quegli anni si venivano consumando in Italia e nel mondo. I suoi romanzi e racconti si ispirano, quanto meno nelle intenzioni, a Flaubert, Proust, Tozzi e Svevo, e Benedetti cercava di trasfondervi le sue emozioni: raramente il risultato, a dire il vero, è felice dal punto di vista della narrazione e della capacità di costruire i personaggi, ma tutte le sue opere sono comunque interessanti poiché trasmettono immagini vivide di ambienti atmosfere, persone.

Nel giornalismo dunque ha dato il meglio. E' stato il condottiero coraggioso di inchieste che hanno fatto epoca: basti pensare alla celebre e per lui dolorosa inchiesta sugli scandali e le speculazioni delle società immobiliari romane, tanto che gli costò una condanna penale (non fu la sola); per essa fu coniato il famoso titolo: "Capitale corrotta = Nazione infetta", a presentazione eloquente dell'articolo scritto da Manlio Cancogni. Concluse poi la sua carriera giornalistica, stroncata quando ancora avrebbe potuto dare tanto al giornalismo italiano, la guida prima de Il Mondo (1969-1972) e poi di Paese Sera, che fu una sorpresa di non poco conto: lui da sempre anticomunista alla guida di un giornale a sinistra del PCI. Oggi, guardando alla sua vita e alla sua opera, le idee e convinzioni profondamente liberali e la tenacia con cui le ha sostenute, insieme all'amico, quasi "gemello" lucchese, Mario Pannunzio, ne impongono oggi una riscoperta o forse, meglio, un "salvataggio", per impedire il definitivo oblio di quello che veramente Arrigo Benedetti è stato e ha pensato.